martedì 24 dicembre 2013

UN BACIO SOTTO IL VISCHIO

La villa illuminata, con un'allegra ghirlanda appesa alla porta d'ingresso, fu un invito irresistibile per il gruppo di cantori. I cinque giovani si affrettarono lungo il sentiero, che dalla via permetteva di raggiungere il portone, senza inzaccherarsi troppo con la neve. Qualcuno si era preoccupato di spazzare le grosse pietre dalla coltre bianca.
Bussarono e attesero. Una donna dall'aria allegra aprì l'uscio. Appena la videro i cantori cominciarono a cantare un allegro motivetto, accompagnato dalla allegra melodia di una cornamusa.
La donna sorrise ed emise uno squittio divertito nel sentire la canzone. Attese che terminassero e poi chiese un bis. "Adoro queste canzoncine", urlò garrula.
I cinque fecero un piccolo inchino di ringraziamento. Si cimentarono in un altro canto e, quando finirono, la donna fece cenno di andare avanti. Si misero d'impegno ed eseguirono un altro paio di canzoni, scegliendole tra le più gioiose del loro repertorio. La sola ragazza del gruppo propose un assolo, che provocò molta commozione da parte della donna alla porta. L’interno della casa era silenzioso, doveva essere sola. I giovani si guardarono poi cantarono un ultima canzone e si misero in attesa.
L'ascoltatrice applaudì alla fine dell'esibizione. "Venite dentro, qui fuori si congela", li invitò ad entrare la misteriosa donna, sorridendo e rabbrividendo.
Quelli non se lo fecero ripetere: capitava di rado che qualcuno li invitasse ad entrare in casa. La maggior parte delle volte coloro che aprivano la porta sopportavano a stento una canzone poi lanciavano loro una moneta e chiudevano la porta. Molti sbirciavano dalla finestra e facevano finta di non essere in casa. 
"Grazie. Fa piacere trovare qualcuno che apprezza ancora i bei vecchi canti natalizi", disse il ragazzo che reggeva la cornamusa, seguendola. Gli altri gli andarono dietro.

La casa era sfarzosa, illuminata da un grande lampadario e rallegrata da un abete addobbato che occupava un intero angolo del salone. La tavola era apparecchiata e dalla cucina proveniva un delizioso profumo di cibo. Tutto era pronto per una serata di festa.
"Accomodatevi sul divano mentre vi preparo uno zabaione. Vi serve qualcosa per scaldarvi. Ci vuole del coraggio per andarsene in giro con questo clima". La donna era una perfetta padrona di casa.
I cantori si accomodarono e allungarono le mani verso il camino acceso. Le dita erano pallide, come i loro volti. Dopo pochi minuti la donna tornò con un largo vassoio. "Ecco, per voi", disse appoggiandolo su un basso tavolo. 
Timidamente i giovani afferrarono le coppe e bevvero. "Grazie", disse quello di loro che sembrava dirigere il gruppo. Poi si guardò intorno, "Come mai da sola in questa sera così gioiosa e da trascorrere insieme alla famiglia?". 
La padrona della villa rise sorseggiando a sua volta una coppa di bevanda allo zabaione, "Non trascorrerò la serata da sola. Tra breve arriveranno i miei parenti, che abitano fuori città. Dovete aspettarli, così potranno ascoltare anche loro i vostri splendidi canti. Ne saranno deliziati".
I cantori annuirono e si scambiarono un altro sguardo d'intesa, ma la loro gentile ospite non se ne avvide. 
La pendola batté otto rintocchi. Dopo pochi secondi la porta di ingresso si aprì e nove persone fecero il loro ingresso ridendo. "Eccovi", li accolse la donna, andando loro incontro. "Ho una sorpresa per voi".
I cantanti scattarono in piedi e si inchinarono. "Questi simpatici ragazzi si esibiranno in un concerto di natale tutto per noi. Sarà un modo piacevole di iniziare i festeggiamenti", spiegò. Gli altri accolsero la notizia con un applauso e presero posto chi sul divano chi in tavola.
Il gruppo cominciò a cantare, accompagnato dalla musica della cornamusa. Andarono avanti per una mezz'ora. Ad ogni canzone erano accolti da uno scroscio di applausi e di apprezzamenti sulla loro abilità.
"Ed ora signori, il gran finale", disse il primo cantore, facendo un passo indietro e prendendo la mano della ragazza che era con loro.
La fanciulla fece un passo avanti e ripeté il suo assolo. Gli occhi dei presenti si riempirono di lacrime di commozione. Al termine fece una riverenza e tornò insieme agli altri. Il ragazzo che l’aveva presentata l’abbracciò e le sussurrò qualcosa all’orecchio, poi si scambiarono un veloce bacio a fior di labbra.
"Bravi, bravi", disse la donna applaudendo forte, imitata dagli altri.
Alcuni ospiti alzarono i calici in direzione del gruppo e urlarono "Alla salute".
I visitatori si inchinarono di nuovo, imbarazzati. Il vecchio cavò dalla tasca interna della giacca il portamonete e lanciò a ciascuno dei cantori una moneta d'argento. Essi le afferrarono abilmente e le riposero nelle tasche dei pantaloni, la ragazza mise la sua in una scarsella appesa alla cintura.
Altri tra i presenti imitarono il capofamiglia e i cantori raggranellarono un bel gruzzolo, profondendosi in ringraziamenti.
"Grazie di cuore", disse l'uomo della cornamusa appoggiando lo strumento su una poltrona, "Ora tocca a noi divertirci". Sul suo viso si allargò un sorriso crudele ed enigmatico.

Prima che la famiglia potesse rendersi conto di cosa il giovane intendeva, i cinque si mossero a velocità incredibile per la stanza. La ragazza si avventò sulla donna che li aveva invitati e l'afferrò per la gola. Quella cercò di divincolarsi ma la stretta era estremamente forte, per una giovane così minuta. La ragazza la sollevò sopra la testa poi l’abbassò fino a che i loro occhi si incontrarono. La donna che li aveva invitati ad entrare si trovò a fissare, terrorizzata, due pozze nere e rosse. La fanciulla dalla voce incantatrice le piegò il collo all’indietro, esponendo alla luce della lampada le vene azzurrine. La donna provò di nuovo a divincolarsi ma senza successo
I denti acuminati lacerarono la pelle del collo, suggendo il prezioso liquido scarlatto. Ben presto la coscienza abbandonò la donna e gli altri. Schizzi di sangue macchiarono la tappezzeria, la tovaglia. Le urla furono smorzate da mani forti o da unghie taglienti, che lacerarono le carni. 
I cinque vampiri banchettarono con la famiglia, per una volta il loro travestimento aveva funzionato.

Dall'entrata udirono un orologio suonare dieci rintocchi, la casa era immersa in un silenzio innaturale. "Andiamo", disse il capo, "é ora di festeggiare sul serio".
Mentre si dirigevano all'uscita, alzò lo sguardo e vide il vischio, appeso ad un allegro nastrino rosso, lasciato penzolare da una volta. Prese la ragazza, la sua dama oscura dalla voce di sirena, tra le braccia e le disse "Un bacio sotto il vischio per portarci fortuna".


giovedì 12 dicembre 2013

IL REGALO PIÚ BELLO


Samyra era una bambina piccola e viziata. Era l'unica figlia di genitori giovani e provenienti da famiglie ben piú che benestanti. Fin da quando poteva ricordarsi era sempre stata circondata dalla ricchezza e dal lusso.
Sua madre la vestiva come una bambolina, e al pari si una bambola la trattava. Suo padre soddisfaceva ogni suo desiderio, senza volerle negare nulla.
I nonni non erano da meno, facevano anzi a gara nel rendere realtá il suo piú piccolo capriccio.
Samyra aveva tutto, la sua stanza dei giochi rigurgitava cavallini a dondolo, bambole e fantoccini, due case di bambole corredate di ogni tipo di arredamento e molto altro ancora.
Era lí che trascorreva i pomeriggi, trastullandosi con i suoi balocchi sotto l'attento occhio della governante. Era questa una donna arcigna e severa, che mal considerava l'esser sempre accontetati una buona educazione per una bambina.
Non che Samyra fosse una bambina particolarmente cattiva rispetto ad altre della sua etá e della sua classe sociale. Anzi, trattava ció che le veniva donato con cura e attenzione, affezionandocisi. Era peró, come molte volte capita a chi puó permettersi molto senza sforzo, volubile. Cosí capitava che la pupattola tanto desiderata finisse in un angolo dopo pochi giorni e dimenticata a favore di un qualche nuovo gioco.

Si apprestava anche quell'anno il periodo natalizio. La cittá rigurgitava di luci colorate e delle allegre canzoni suonate dai musicisti di strada.
Samyra era uscita insieme a sua mamma per acquistare i regali. La mamma, donna poco incline alla fantasia, le aveva spiegato che a portare i doni non erano figure mitiche ma gli addetti dei negozi e che ad acquistarli erano i nonni ed i genitori.
Samyra aveva accettato quell'informazione come molte altre datele da sua madre. "Non credere al principe azzurro ma quando sará il momento cercati un uomo con tanti milioni quante le stelle in cielo", era una delle frasi preferite da sua madre. "Le parole dolci fanno bene all'anima per qualche momento, ma i gioielli per molto piú tempo. E non sbiadiscono nella memoria. Quindi figlia mia preferisci sempre un diamante a qualunque profferta d'amore o di fedeltá".
Quel pomeriggio passeggiava con la madre per le vie del centro, i giorni che mancavano alla sera in cui avrebbero aperto i pacchi erano volati e quelli erano gli ultimi regali che mancavano. Tra i quali il suo.
Sapeva che il papá e i nonni avevano giá acquistato i loro doni e che ora erano nascosti in casa, in nascondigli preziosi, ma era quello da parte di sua mamma che mancava. Era una tradizione per Samyra: l'ultimo giorno utile la mamma lo dedicava all'acquisto del regalo per lei. Era il regalo piú bello per Samyra. Non solo perché sua madre le comprava sempre quello che lei desiderava ma perché andavano insieme a prenderlo.
Dopo essersi fermate in una pasticceria dove avevano preso il tea, in realtá Samyra avrebbe voluto una cioccolata ma sua madre non gliel'aveva permesso ma aveva in ogni caso potuto mangiare una fetta di dolce, avevano proseguito facendosi largo tra la calca dei negozi e delle strade.
Gli occhi della bambina erano stati, d'improvviso, catturati da un baluginio rosso. Aveva lasciato la mano della mamma e si era fatta largo fino alla vetrina di una gioielleria. Davanti a lei, su un cuscino di velluto nero, brillava un pendente a forma di cuore. Quando la mamma finalmente riuscí a raggungerla rimase a sua volta affascinanata dal gioiello. Samyra indicó il cuore. "Quello", disse, facendo capire alla mamma che desiderava quello.
La donna, che era concreta in un modo tutto suo, sorrise alla figliola. "Andiamo a vedere", le disse prendendola per mano. Entrarono nella gioielleria, stranamente deserta, e furono accolte da un ometto curvo.
"Buonasera - esordí la donna impellicciata - vorrei quel pendente a forma di cuore. Per favore mi faccia un pacchetto speciale, é un regalo".
L'uomo sorrise e rispose. "Un dono unico, signora. Ma questo é prezioso e deve essere donato con il cuore. Non é un regalo per tutti" quindi prese il cuore rosso dalla vetrina e lo portó al tavolo. Lo pulí con un panno fino a farlo splendere sotto le luci artificiali. Lo compose poi in un delizioso pacchetto nero che chiuse con un nastro rosso.
Lo infiló in un sacchetto e lo porse a Samyra. "Custodiscilo con cura. É un regalo prezioso. É fatto con il cuore. Una raritá", le disse strizzandole l'occhio.
La mamma pagó, stupendosi di quanto poco costasse il gioiello e, insieme alla figlia, uscí. "É bellissimo", commentó Samyra stringendo al petto il sacchetto. Quando lo appoggió le sembró di percepire, attraverso la stoffa del cappotto, un movimento. Come un battito improvviso poi niente piú.
La mamma le sorrise, in un modo che non aveva mai fatto prima e Samyra non seppe far altro che abbracciarla.
Mentre tornavano a casa Samyra sentí il pacchetto muoversi sulle sue ginocchia. La mamma osservava fuori dal finestrino e sembrava assorta in pensieri felici, dato che sorrideva ancora. Era raro veder sorridere in quel modo sua madre, nemmeno quando il papá le portava un nuovo prezioso oppure una nuova pelliccia o le prometteva un viaggio sorrideva in quel modo.
"Sei contenta?", le chiese d'improvviso. Samyra assentí e sorrise a sua volta. Si ritrovó stretta in un abbraccio inaspettato. Sulle sue ginocchia il pacchettino cominció a saltellare allegramente.
La donna e la bambina lo guardarono spaventate e appena arrivate a casa corsero nel salone e mostrarono il prodigio al resto della famiglia.
Osservarono il pacchetto sul tavolo, immobile poi guardarono madre e figlia. La donna strinse a sé la bambina, come per proteggerla e il pacchetto compí una piroetta sul tavolo. 
Samyra urló e sua madre svenne. Il medico chiamato d'urgenza visitó entrambe, riscontrando solo qualche linea di febbre a Samyra e un lieve esaurimento alla mamma. "Passate feste tranquille e staranno bene", consiglió il dottore andandosene. Nessuno ebbe il coraggio di raccontargli del pacchetto ballerino.
Dopo la cena, si ritrovarono davanti al grande albero addobbato per aprire i regali. 
Samyra aprí quelli dei nonni: erano eleganti abiti e scarpine abbinate. Ringrazió con un bacio e li mise da parte. Il papá diede il suo regalo alla mamma, lei lo aprí con un'espressione di curiositá in viso. Dalla scatolina trasse fuori un pendente a forma di cuore, identico a quello che lei aveva acquistato poche ore prima ma invece che essere intagliato in un rubino era in diamante, puro e cristallino. "Il mio cuore, per te", le disse l'uomo. "Il regalo piú bello", rispose lei. 
Fu quindi nuovamente il turno di Samyra di aprire un pacchetto, lasció per ultimo quello della mamma e si concentró su quello del papá.
Dalla scatola estrasse una composizione di statuine di cristallo trasparente, che sembrava assomigliare a lei e ai suoi genitori. "Grazie", rispose sorridendo perplessa. "Siamo noi", le spiegó il padre. "Cosí saremo sempre vicini". Samyra lanció uno sguardo alla madre, ricevendo in cambio un sorriso caldo e dolce.
"Adesso apri il mio", le disse la donna. Samyra si alzó e andó al tavolo. Prese il sacchetto e ne estrasse il pacchetto. Lo aprí e sollevó, perché tutti potessero vederlo, il cuore di rubino. 
Vedendolo sua madre ebbe un moto di rabbia, si slanció in avanti e lo portó via dalle mani della figlia. Il pendant cadde e si ruppe a metá. Samyra lo guardó e lo raccolse, lacrime calde e amare scendevano sul suo viso. "Era il regalo piú bello...fatto col cuore...una raritá".... Mormorava ripetendo le parole del gioiellerie.
Sentí qualcosa incrinarsi nel petto poi ebbe la sensazione che il suo piccolo cuore si spezzasse. Strinse i due pezzi del cuore rosso e si accasció a terra, senza piú vita.
Sua madre si gettó su di lei scuotendola e cercando di svegliarla ma senza riuscirci. Urló e urló ma Samyra non si sveglió. 
Fu chiamato il medico d'urgenza e poté solo constatare la morte della bambina. "É come se qualcuno le avesse spezzato il cuore", disse alla fine della visita. "Aveva in mano questo". E diede ai genitori in lacrime il cuore rosso in pezzi.

mercoledì 27 novembre 2013

GHOST STORY


Non avendo molto da fare, spesso mi ritrovavo a guardare fuori dalla finestra della mia stanza, colto da una malinconia e una nostalgia mai conosciuta prima per la vita. L'origine di questi miei sentimenti era dovuta al fatto che da qualche settimana ero ricoverato in questo sanatorio, nei pressi di questo villaggio di montagna.
Mi trovavo in questa amena residenza per curare una brutta tosse, che da mesi mi angustiava. Era stato il mio medico, e buon amico, D. a a consigliarmi un periodo di riposo. Mi aveva assicurato che l'aria fresca avrebbe giovato alle mie malandate vie respiratorie.
All'inizio del mese precedente mi ero presentato, con una lettera di ammissione firmata proprio da D., al Direttore. Giá dal primo pomeriggio potei sottopormi alle cure necessarie per rimettere in sesto i miei bronchi.
Al terzo piano, dove mi avevano sistemato, non vi erano molti altri ospiti: un gruppetto di uomini robusti, che seppi - da una solerte infermiera - essere minatori ospitati per curare uno stadio iniziale di silicosi.
Di notte li potevo udire colpi di tosse con in tono cosí grave da far sembrare la mia quella di un bambino.
Dopo la visita di un bravo medico, mi hanno prescritto una serie di inalazioni, che dovrebbero favorire la mia guarigione.
Come un bravo scolaretto ho eseguito quanto ordinatomi, notando un piccolo miglioramento nelle mie condizioni: sia nella respirazione sia nella dolorosa sensazione che attanagliava il mio petti e causata dagli spasmi causati dalla tosse.
Se continuassi su questa via di guarigione, potrei far ritorno a casa giá il mese prossimo. Durante uno dei nostri ultimi colloqui, il Direttore si raccomandó che smettessi di fumare e di badare meglio alla salute dei miei polmoni.
Senza darmi il tempo di rispondere mi accompagnó alla porta del suo studio e mi fece uscire. Rimasi nel corridoio rimuginando sulle sue parole, con un senso d'angoscia profonda nell'animo.
Mi avviai verso la mia stanza da letto, pronto a cambiare in modo radicale le mie abitudini e cominciare una vita senza vizi. Non solo avrei smesso con il tabacco ma anche con il bere e il far tardi la sera. Avrei, inoltre, fatto lunghe passeggiate per ritemprare corpo e spirito.
Ero in procinto di entrare, quando in fondo al corridoio scorsi una giovane donna, in piedi vicino alla finestra. Sembrava intenta a bearsi dello splendidl panorama della Valle sottostante.
Convinto che fosse una nuova ospite, mi avvicinai per presentarmi e darle il benvenuto.
Man mano che mi lasciavo la porta della stanza assegnatami alle spalle, ai miei occhi l'immagine cominciava a sbiadire e quando raggiunsi la finestra, ero solo a guardare il panorama.
Mi sono sempre considerato un uomo di buon senso e ragionevole, ma in quell'occasione non seppi trovare una spiegazione logica. Con la mente eccitata da questo evento, tornai verso la camera da letto. Prima di entrare lanciai un'altra occhiata. La donna era lá, il viso rivolto alle montagne e ai boschi. Nel mio animo insorse un panico mai provato prima di allora e aprii con veemenza la porta. Mi catapultai all'interno, colto da un violento attacco. In qualche modo riuscii a raggiungere il letto e a sdraiarmi. Tremando per la tosse e la paura chiamai un'infermiera. Quando infine giunse, avevo recuperato un po' di calma ma ero pallido e febbricitante.
Non ebbi il coraggio di dirle cosa avevo visto ma la pregai di chiedere, a nome mio, un colloquio con il Direttore.
Quello stesso pomeriggio mi ritrovai nello studio, vergognandomi appena un poco raccontai quanto mi era accaduto. L'uomo di scienza ascoltó con attenzione. "Avete visto Aliseia. Altri pazienti prima di voi sostengono di averla veduta, a quella finestra". La sua voce, come l'espressione del suo viso era imperturbabile. "Se non sbaglio si é buttata giú da quella finestra qualche anno fa - aggiunse -. Suo marito e alcuni suoi parenti erano morti in un incidente. Lei era stata portata qui perché l'aiutassimo a superare il trauma. Dopo due giorni si buttó, proprio da quella finestra".
Sentii in brivido freddo percorrermi la schiena e la bocca farsi secca.
"Ora che vi osservo con attenzione - proseguí - voi assomigliate molto al marito di Aliseia".
Si alzó e da un cassetto dello schedario entrasse una cartella, da cui tiró fuori una fotografiain bianco e nero. Me la porse. Raffigurava un uomo giovane, seduto su una panchina insieme ad una donna. Ella indossava un abito identico a quello della mia apparizione.
Osservai lui, fu come guardarmi allo specchio. Stessi capelli, baffi sottili, sopracciglia. Incapace di profferire alcunché mi congedai e tornai sui miei passi.
Come era possibile? Ero ben certo di non aver fratelli, o peggio in gemello da cui ero stato separato ancora in fasce. Forse era un mio sosia. Oppure io ero il suo.
Quella strana vicenda mi stava facendo impazzire.
Quando mi appressai alla porta della stanza la vidi di nuovo, mi guardava con dolcezza e mestizia.
Un sudore gelido mi fece accapponare la pelle e, veloce, aprii la porta. Mi chiusi dentro, sentendomi al sicuro.
Decisi di stendermi e cercare di riposare. Mi ripetevo che era tutto frutto della mia immaginazione.
Ebbi un sonno agitato e se sognai, al mio risveglio non riuscii a ricordare nulla. 
L'orologio segnava oltre le 11, l'ora di cena era trascorsa ma non avevo fame. Provavo in senso di inquietudine sempre maggiore. Come se in camera non fossi stato solo, temevo che quella figura di donna evanescente fosse riuscita ad entrare e ora attendesse, acquattata da qualche parte vicino al mio letto.
Per cercare di rinfrancare il mio animo accesi l'abat-jour sul comodino e afferrai il volume di poesie che mi ero portato per passare il tempo. Lo aprii si una pagina a caso e il mio cuore perse piú di un battito quando lessi il titolo "Aliseia".
Respirai lentamente, cercando di recuperare la calma e stupendomi come, dopo quello spavento, il dolore al petto, che mi aveva portato in quel luogo, fosse d'improvviso scomparso.
Per la prima volta da settimane stavo bene e sentii l'urgenza di abbandonare quel luogo di sofferenza. Dovevo subito avvertire il mio amico e farmi venire a prendere.
Mi alzai e recuperai la vestaglia, a passi veloci lasciai la camera e mi diressi verso la sala delle infermiere. Non trovai nessuno ma poco piú avanti trovai una rampa di scale, che non ricordavo di aver mai visto prima, e la percorsi alla velocitá massima consentitami dalle pantofole. Mi trovavo in un'ala del sanatorio dove non ero mai stato ma avevo bisogno di trovare un telefono.
Al termine mi trovai in un corridoio semi buio e in fondo vidi la reception e un telefono.
Mi avvicinai all'infermiera e le chiesi di poter telefonare. Quella mi ignoró e continuó a leggere la rivista che aveva davanti. Glielo domandai di nuovo, con maggior gentilezza ma ancora fece finta di non sentirmi.
Scocciato, afferrai la cornetta e composi il numero del mio amico e medico. La vidi sbiancare di colpo, balzare dalla sedia e correre via urlando che la cornetta si muoveva da sola. Cercai di non farmi influenzare dal bizzardo comportamento della donna e telefonai a D., che dopo un paio di squilli mi rispose. Gli riferii i progressi e il mio desiderio di tornare alla vita di sempre. Con la sua bella voce mi rispose che sarebbe passato il giorno dopo. Rincuorato attaccai e tornai sui miei passi. Avevo bisogno di parlare al Direttore per dirgli che me ne sarei andato il giorno dopo. Mentre procedevo incontrai personale che non avevo mai visto. Nessuno di loro mi degnó di uno sguardo o ricambió i miei saluti. Stupito ed irritato proseguii nella direzione da cui mi pareva di essere arrivato in quell'ala dell'ospedale.
Pensavo di risalire le scale e tornare al terzo piano, dove era la mia camera e l'ufficio del Direttore ma non trovai nulla. Il corridoio sembrava proseguire all'infinito. Sulla destra si diramava un secondo percorso e lo imboccai, un po' timoroso. Senza sapere come dopo una trentina di passi mi trovai nel familiare corridoio del terzo piano. Sulla sinistra la porta del Direttore. Senza bussare entrai e lo trovai alla scrivania. Senza preamboli gli diedi la notizia della mia imminente partenza. Avevo intenzione di esprimere le mie rimostranze per il comportamento poco gentile del personale quando mi volsi e la voce mi morí sulle labbra. In un angolo vidi la donna della finestra, Aliseia. Le parole della poesia mi sovvennero: "Aliseia, creatura di brezza e primavera/luce di gioia e eterna felicitá del mio cuore..."
Spostai lo sguardo da lei al medico e di nuvo a lei.
"Amor, amor mio. Insieme di nuovo, finalmente",  disse con una voce musicale, avvicinandosi. Mi ritrassi, ero incredulo. Non era vero, si trattava di uno scambio di persona.
Il dottore scosse la testa. "Capita che quando qualcuno molto attaccato alla vitarifiuti di prender coscienza della sua condizione di morto. Dovremo rimediare".
Aggiunse che i miei dolori e la mia tosse derivavano da quello.
Morto? Come facevo ad essere morto? Mangiavo, parlavo con le persone e poco prima avevo telefonato e parlato con il mio amico.
Il Direttore scoppió a ridere. "Questo piano del sanatorio é come un limbo. Il vostro corpo é nel sotterraneo. Quando la vostra coscienza si é risvegliata in questa forma, che vi sembra solida, siete giunto qui. Noi siamo qui per questo: accompagnarvi alla consapevolezza. E per questo abbiamo fatto venire qui la vostra Aliseia.
Urlai che non era possibile, che era un pazzo. Devi per uscire ma la porta era scomparsa.
Ogni fibra del mio essere continuava a dubitare delle parole dell'uomo, ma la mia mente cominciava a fornirmi immagini plausibili, a conferma di quella storia.
Mi accasciai su una sedia e mi arresi all'evidenza.

 Il mattino seguente il dottor D varcó la soglia del sanatorio, chiedendo del suo amico. Un'infermiera lo scortó al terzo piano, dove trovó il Direttore ad attenderlo.
"Brutte nuove - esordí -. Il vostro amico stanotte si é tolto la vita. Abbiamo trovato questo libro".
Il medico prese il volume e lo aprí, all'interno trovó un biglietto in cui il suo amico, in poche righe, diceva di dover tornare dalla sua amata Aliseia.
"Chi sarebbe?", domandó perplesso. Il Direttore gli indicó la poesia e il medico lesse il titolo, "Aliseia", poi scorse i versi e voltó pagina.
Trovó un breve scritto in cui si diceva che l'autore era morto in circostanze misteriose mentre si trovava in in luogo di cura.
"Per voi é ora di andare, qui é tutto a posto", lo invitó il Direttore.

L'uomo, pallido e spaventato dall'intera situazione, si fece condurre verso l'uscita, non resistette e si voltó indietro: vicino alla finestra in fondo al corridoio, per una frazione di secondo, vide il suo amico, abbracciato ad una donna, con il viso rivolto alla vallata.

venerdì 15 novembre 2013

I KILLED JACK THE RIPPER

Appena arrivato alla sede della polizia di  Whitechapel un solerte poliziotto aveva consegnato all’ispettore Frederick Abberline una busta. Era una semplice busta bianca, il suo nome spiccava sul retro, vergato con una calligrafia elegante e decisamente femminile.
Abberline rigirò la missiva tra le mani, chiedendosi chi potesse avergli scritto. Non c’era timbro postale quindi doveva essere stata consegnata a mano Richiamò il giovane agente che gliel’aveva data e gli chiese chi fosse il latore della lettera. Quello si inchinò con rispetto ma non rispose, rimanendo a fissare l’ispettore con aria indecisa. «Avanti ragazzo, non ho tutto il giorno. Ho un assassino da prendere...», lo incalzò Abberline, infastidito. La notizia dell’ennesimo omicidio compiuto da Jack lo squartatore campeggiava sulle prime pagine dei giornali di tutta Londra. Da Buckingham Palace uscivano richieste di risolvere il caso ormai a scadenza giornaliera e l’ansia aleggiava per tutto il distretto di Whitechapel. Le prostitute avevano paura e chiedevano protezione, i membri delle gang del quartiere si trovavano in difficoltà e pretendevano che la polizia risolvesse quel mistero, per loro era una questione di affari. 
«Avanti, parla», urlò l’ispettore e l’agente, non doveva avere più di vent’anni, arretrò di un paio di passi, spaventato. «La busta è stata lasciata all’ingresso, con la richiesta di consegnarla a Voi al vostro arrivo. L’hanno portata, ieri notte, molte ore dopo che ve ne eravate andato. Io l’ho trovata stamattina all’inizio del turno, non so chi l’abbia portata e chi ha preso la busta è andato a casa», biascicò il ragazzo, con voce strozzata. «Andate. andate», lo invitò Abberline con un gesto stizzito della mano. Quello non se lo fece ripetere e letteralmente scappò al suo posto.
L’ispettore emise un gemito. Il caso di Jack era il peggiore della sua carriera e fino a quel giorno non era riuscito a trovare un indizio valido che lo portasse verso un nome che desse un volto al misterioso assassino di derelitte. Decine di sospetti, tra i quali anche il Duca di Clarence, erano stati sottoposti fino a pochi giorni prima alla sua abilità negli interrogatori ma, in un modo o nell’altro, tutti i sospettati erano risultati estranei agli eventi delittuosi. In alcuni casi era risultato che non fossero nemmeno a Londra al momento in cui i delitti si erano consumati.
Osservò nuovamente la lettera, alla fine afferrò il tagliacarte e l’aprì. All’interno trovò un solo foglio, scritto con la medesima calligrafia del suo nome. In alto a destra era indicata la data, il nove novembre, due giorni prima. La notte in cui Jack aveva massacrato Mary Jane Kelly nella sua miserabile stanzetta affacciata su Miller’s Court, non lontana da Dorset Street nel vicino Spitafields. 
Il massacro si era consumato nelle prime ore del mattino, aveva ipotizzato il medico intervenuto in loco per visionare ciò che restava della venticinquenne irlandese, ma la scoperta era avvenuta nella tarda mattinata. Di tutti quelli compiuti da Jack quello di Mary Kelly era stato il più efferato: appariva chiaro che l’assassino aveva avuto tutto il tempo di tagliare la gola alla ragazza, aprirle la cassa toracica, estrarre il cuore e dedicarsi ad altre molteplici mutilazioni. La donna era stata identificata dal suo padrone di casa, che aveva spiegato di averle affittato la stanza un paio di giorni prima. Era stato l’uomo a trovarla, quando era andato a riscuotere la pigione. Controvoglia aveva raccontato quello che sapeva ai poliziotti, quindi si era dileguato. Avevano lavorato per tutto il giorno e buona parte della notte, molti uomini erano stati usati per fare un cordone e tener lontani i curiosi, accorsi per assistere all’ennesima vittima dello Squartatore. La missiva non aveva intestazione, ma esordiva con una frase che fece fermare il cuore in petto ad Abberline. 
«Ho ucciso Jack lo Squartatore, secondo quanto le avevo promesso in occasione del nostro ultimo incontro. Ho tallonato il Nostro Amico Assassino, in attesa di coglierlo all’opera e così ho fatto. L’ho trovato presso il letto di quella donna e l’ho affrontato, combattuto e sconfitto. Non tornerà mai più dall’Inferno dove l’ho spedito...». 
Nelle poche righe seguenti pregava l’ispettore di tenere per sé il modo in cui si era giunti alla dipartita di Jack ma di rilasciare ai giornali, se proprio lo riteneva necessario, la notizia che l’omicida delle derelitte di Whitechapel era stato tolto di mezzo definitivamente e che l’East End poteva considerarsi un luogo sicuro, almeno per quel che riguardava Jack.
In fondo, con uno svolazzo elegante, la firma. L’ispettore sgranò gli occhi quando lesse il nome. Poi scattò in piedi, prese soprabito e cappello e corse fuori. In tasca gli sembrava che la lettera pulsasse, come un cuore appena cavato dal petto che ancora non sa di non dover più battere. Aveva bisogno di avere delle conferme su ciò che la lettera raccontava.
Nella sua mente si affollavano pensieri contrastanti. Fermò un tassì e diede un indirizzo al vetturino poi si accomodò. Mentre lasciava Whitechapel, diretto verso una magione nei quartieri alti, una miriade di domande si affollavano sulle sue labbra e sperava di trovare una risposta. Non ci volle molto tempo perché si trovasse davanti ad un portone di legno spesso, con un battente dall’inquietante forma di drago di metallo argentato.
L’Ispettore riandò con la mente ad un incontro, avvenuto non molti giorni prima, che aveva avuto inizio con uno strano biglietto ed invito proprio in quella casa.
Abberline trattenne il fiato, in attesa che qualcuno della servitù gli venisse ad aprire la porta, sperando che l’autrice della lettera fosse in casa, cercando di ricordare se la prima volta si erano incontrati di giorno o verso sera. 
L’uomo si guardò intorno, la via era quasi deserta, eppure percepiva la sgradevole sensazione di essere osservato ma senza riuscire a trovarne l’origine. Si diede dello stupido, era a tal punto in ansia per il caso dello Squartatore da essersi convinto di avere sempre gli occhi puntati addosso. 
«Devi darti una calmata, vecchio mio», si disse cercando di non lasciar trapelare il disagio che l’attesa gli stava causando. Sbatacchiò il battente una seconda volta, con maggiore forza, sembrava che la dimora fosse deserta ma almeno una cameriera doveva esserci, si disse. Alla fine udì qualcuno che si avvicinava alla porta a passi veloci. 
Quel breve lasso di tempo in cui Abberline rimase fuori dalla casa londinese di Lord Alvers gli bastò per analizzare di nuovo l‘incontro con l’ospite dell’uomo, la proposta che lei gli aveva fatto e i fatti che ne erano seguiti. Fatti che avevano portato alla sua presenza alla porta in quel gelido 11 novembre.
Per un momento pensò di andarsene e lasciar perdere, ma il suo desiderio di sapere la verità, la sua necessità di avere la certezza che Jack The Ripper fosse stato tolto di mezzo per sempre era più forte del buonsenso e della sua logica da poliziotto.
Quando infine la porta si aprì e si trovò di fronte al maggiordomo in livrea nera, sorrise e si presentò, chiedendo espressamente dell’amica di Lord Alvers e finalmente fu fatto accomodare in casa.

London, September 1888. 

Per l’Ispettore Frederick Abberline erano giorni difficili, trascorreva le ore del giorno e della notte immerso in un’inquietudine vischiosa. Il discorso della giovane dama gli rimbombava senza tregua in testa. «Posso liberarvi del vostro Problema. Con riserbo. Nessuno lo verrebbe a sapere e voi sareste encomiato per il servizio resto alla Corona. Se sperate di risolvere questo caso senza il mio aiuto, siete degli illusi: chi compie gli omicidi è fuori dalla vostra portata. Io sono in grado di mettere fine a questo incomodo. Conosco il modo. Conosco chi si cela dietro la maschera dello Squartatore. Comprendo che per voi sia difficile credermi, vi lascio tutto il tempo di cui avrete bisogno per prendere una decisione. Vi avverto che tutto gioca contro di voi e vi consiglio di riflettere in fretta. Il tempo scarseggia e questo vostro Assassino potrebbe colpire da una notte all’altra, siete avvertito».
Il suo «Problema», un eufemismo. Il suo non era un problema, era una catastrofe di proporzioni epiche. Qualcuno si stava divertendo a massacrare e mutilare le sventurate di Whitechapel. Non pago, l’autore si era dileggiato della Metropolitan Police, inviando ai giornali lettere denigratorie. 
E in tutto questo, lui si trovava nell’occhio del ciclone: dagli uffici dei suoi capi a Scotland Yard fino agli appartamenti della Regina Victoria gli occhi erano puntati su di lui.
Aveva parlato con la donna il dodici di settembre, quattro giorni dopo che il corpo di Annie Chapman era stato rinvenuto nel cortile posteriore del numero 29 di Hanbury Street a Spitafields. Dalle testimonianze raccolte nei giorni seguenti aveva scoperto che intorno alle 5.30 di quel mattino la donna era stata vista parlare con un uomo, vestito di nero e con indosso mantello e cappello. Elementi che ne rendevano impossibile l’identificazione. Anche se il testimone sosteneva che gli abiti gli erano apparsi di un certo pregio e che il cappello era a cilindro e sembrava costoso, l’Ispettore non aveva molte possibilità di trovarlo. Nonostante la sua pessima reputazione centinaia di facoltosi londinesi sceglievano le squallide strade di Whitechapel e i suoi locali fumosi come meta per le loro scorribande notturne, alla ricerca di qualche brivido o di qualche ora di amore a poco prezzo.
Poi aveva ricevuto il biglietto della misteriosa dama, in cui lo invitava per un tea, quella sera. All’inizio non aveva compreso, ignorava chi fosse e più per curiosità che altra ragione, aveva accettato. La prima volta che l’aveva vista aveva pensato che fosse uno scherzo, una ragazzina che voleva prendersi gioco di lui e della polizia. Senza scomporsi la fanciulla l’aveva fatto accomodare e gli aveva fatto quella proposta, sorridendo in modo amabile. La sua voce era ferma, parlava con un lieve accento dell’est Europa. Più di tutto, l’Ispettore Abberline era rimasto colpito dagli occhi della misteriosa dama: lo guardavano con una serietà che mal combaciava con l’aspetto estremamente giovane. Anche le sue parole denotavano una conoscenza del mondo più simile a quella avrebbe potuto avere una donna adulta invece che una ragazzina poco più che adolescente.
Il rompicapo si infittiva e a lui mancavano sempre troppi pezzi per completarlo. Aveva sguinzagliato i suoi migliori agenti, sperando in un colpo di fortuna. Aveva cercato di isolare il più possibile le notizie sui giornali ma la diffusione del rinvenimento poco distante di un pezzo di grembiule di cuoio da macellaio aveva eccitato gli animi, già resi animosi dagli eventi di quell’inizio autunno. Così tutti gli agenti che non erano stati impegnati nelle indagini sull’assassino delle sventurate, si erano ritrovati a schedare quegli uomini che se l’erano presa con ebrei e macellai. In tutto quel trambusto aveva cercato di ignorare le parole di quella che appariva come una giovane nobildonna, senza dubbio annoiata della sua comoda esistenza.
Una parte di lui, quella razionale, ripeteva che era una follia accettare quell’idea. Un minuscolo angolo del suo cervello, invece, gli diceva di non rifiutare quella proposta di aiuto, perché c’era qualcosa di strano in quegli omicidi. Qualcosa di non umano. Quella consapevolezza, che non poteva certo condividere con i suoi superiori e tanto meno con i subalterni impiegati nelle indagini, lo metteva in uno stato d’ansia.
Le indagini erano ferme, non aveva più idee. Aveva perlustrato ogni angolo di quel fetido buco che era whitechapel ma niente di concreto ne era emerso. Parole confuse, racconti smorzati dalla paura. Aveva seguito ogni pista, a suo dire, possibile ma non aveva ricavato alcun risultato.
Quando nella notte del 30 settembre il misterioso Jack The Ripper - come si era firmato nelle missive ai giornali e alla polizia - ne aveva uccise due in un colpo solo: la quarantaquattrenne Elizabeth Stride e la quarantaseienne Catherine Eddowes Abberline aveva capito che quel caso non si sarebbe risolto facilmente. Il primo ottobre, già sorto sotto il peggior auspicio, era stato caratterizzato dalla consegna di una cartolina, firmata «Saucy Jack», in cui egli rivendicava il doppio evento. Il suo già difficoltoso lavoro era stato peggiorato dal ritrovamento del brandello di grembiule e dalla scoperta del graffito, poco lontano dal cadavere. Il fatto che fosse stato fatto cancellare dal suo capo non aveva migliorato la situazione. 
Quello stesso pomeriggio gli era stato recapitato un altro biglietto da parte della giovane donna, in cui lo invitata a presentarsi al medesimo indirizzo della precedente occasione, al tramonto.
Calava un sole autunnale sbiadito, dietro il profilo altero della House of Parliament, quando l’Ispettore Abberline bussò alla porta principale di una graziosa palazzina situata in una delle più belle vie di Londra. L’edificio, al pari di quelli vicini, trasudava lusso e ricchezza fin dall’esterno, facendo sentire il poliziotto - ex orologiaio - a disagio. Un maggiordomo emaciato lo fece accomodare e si congedò, lasciandolo nell’ingresso. Pochi minuti dopo la sua ospite comparve, cogliendolo ad ammirare il dipinto di una donna velata. «Lieta che abbiate accettato questo mio nuovo invito, Ispettore», esordì la giovane donna, con un sorrisetto. Con la mano guantata gli fece cenno di seguirla e lo precedette in un salottino, illuminato appena. La dama gli indicò una poltrona, quindi a sua volta si accomodò sul divano di fronte a lui. Dalla prima volta in cui si erano incontrati sembrava diversa, meno ragazzina e più donna ma l’uomo non riusciva a capire da cosa quel cambiamento fosse provocato. L’abito che indossava, nero e alla moda, era simile a quello dell’altro incontro. I capelli erano ben acconciati e circondavano il viso candido di riccioli rossi. Eppure all’Ispettore sembrava che fosse cresciuta di una decina d’anni nell’arco di quelle poche settimane. 
Ella attese, le mani appoggiate in grembo e sorridendo. Abberline si sentiva in imbarazzo, tossicchiò e infine parlò. Negli ultimi giorni la pressione era aumentata. Whitechapel, già di per sé non un quartiere tranquillo, si era trasformata in una bomba pronta ad esplodere. La paura serpeggiava tra i vicoli e la polizia faceva del suo meglio per tranquillizzare la popolazione.
Da parte sua si sentiva le mani legate...aveva interrogato decine di sospetti, ma nessuno di loro sembrava possedere alcuna caratteristica dell’efferato maniaco. «Grazie di avermi ricevuto, Milady. Sono qui per avere un chiarimento sulla vostra proposta», disse Abberline, cercando di mantenere un contegno il più possibile formale e sperando di non offenderla. Aveva intuito che non era donna dal carattere facile, ma in un modo differente da quello delle donne dell’alta società.
Da parte sua la dama non si scompose, continuò a fissarlo con occhi che davano l’idea di poter penetrare il buio. «Comprendo la vostra perplessità, Ispettore. Vi assicuro che io sono la sola in grado di poter eliminare il vostro Jack, nell’immediato. Riesco a fiutarlo, se mi passate il termine poco nobile». Rise e Abberline a quel suono si sentì accapponare la pelle. Stava per dire qualcosa ma l’arrivo inaspettato di una cameriera con il tea lo distrasse. La donna servì l’uomo e poi porse alla dama un calice, ricolmo di un denso liquido rosso. «Grazie Emagda», disse lei sorseggiandolo piano. «É delizioso. Ringraziate il buon Stemmar per l’ottimo lavoro svolto, come sempre». 
Si volse verso l’Ispettore, alzò il calice e ne bevve un ulteriore sorso. Gli occhi assunsero un’espressione di beata soddisfazione. L’ispettore si chiese cosa fosse e lei, strizzandogli l’occhio, rispose «Non siete pronto per essere messo a parte dei miei segreti, Ispettore». Abberline dovette ricorrere a tutto il suo sangue freddo per non fare un balzo sulla poltrona. 
La dama indicò il piattini ricolmi di sandwich e pasticcini, «Prego servitevi, ho dato ordine di prepararli apposta per voi. I vostri preferiti». E sorrise di nuovo. L’uomo sentì una sensazione di freddo invaderlo: quei sorrisi erano bellissimi e il viso della fanciulla era stupendo ma erano sorrisi non di gioia ma di cattiveria, con un che di crudele che si sprigionava dagli angoli della bocca rossa. O forse era tutta quella situazione che lo rendeva nervoso e gli faceva immaginare cose che non erano.
«Spero che il tea sia di vostro gradimento», aggiunse lei riscuotendolo dai suoi pensieri. Abberline fece un cenno positivo e addentò un morbido panino ripieno di burro spalmato e cetrioli. Quella donna era piena di sorprese. Sapeva più cose lei sulle sue abitudini di quante lui fosse a conoscenza su di lei. «A tempo debito saprete, Ispettore». Nuovamente la voce femminile lo fece trasalire. Si chiese se lei potesse leggere nella mente e si diede dello stupido. Tornò a concentrarsi sull’espressione enigmatica della sua interlocutrice, intenta a sorseggiare la sua bevanda rossa e densa, con una luce di soddisfazione negli occhi.
«Parlatemi dei delitti». Era poco più di un sussurro ma ad Abberline sembrò che gli fosse stato urlato. «Non sono argomenti adatti ad una giovane dama», ribatté l’uomo di legge ma per tutta risposta lei scoppiò a ridere. «Vi stupireste nel sentire quelli compiuti da...», ma si interruppe e sorrise. «Mi servono informazioni, per capire chi fossero le vittime. Perché il nostro Amico Assassino ha scelto loro». Con un sospiro l’Ispettore raccontò a sommi capi alcuni particolari degli omicidi, osservando di sottecchi le reazioni di lei. Di fronte a lui la giovane non si scompose nemmeno nell’udire le parti più cruente. Anzi, sembrava interessata proprio a quei punti in cui il racconto sprofondava nell’orrore più cupo. «Prima di procedere alle mutilazioni addominali - illustrò Abberline - Jack ha tagliato loro la gola. Ad eccezione della Stride, abbiamo ipotizzato che sia stato interrotto, tutte hanno subito l’asportazione di almeno un organo interno e in alcuni casi dei genitali». L’espressione della giovane si fece pensierosa. «Il suo sadismo. Non è cambiato per niente in questi anni. Sembra solo che sia sprofondato ancor di più nella sua stessa follia», commentò la misteriosa dama. «Prego?», domandò con stupore il poliziotto. 
«Il Vostro Jack è sempre stato un sadico, non si è improvvisato in questi ultimi mesi. Vanta una carriera da omicida per tutta Europa, non solo sui campi di battaglia. Fino ad ora aveva preferito agire nell’ombra e in segreto. Non riesco a comprendere cosa ora invece lo spinga a volere che tutti sappiano che è stato lui - gli rispose con candore la sua ospite -. Ama divertirsi con le sue vittime, gli è sempre piaciuto giocare...e taglia loro la gola, ritengo con una precisione degna di un chirurgo, per nascondere altri suoi gusti...Penso che dovrete darmi la possibilità di vedere uno dei corpi. Stasera sarebbe l’ideale...datemi giusto solo il tempo di cambiarmi. Non sarebbe opportuno per me farmi vedere in queste vesti in giro per gli obitori, attirerei l’attenzione...Fate chiamare una carrozza». Abberline non riuscì a protestare che quella era già sparita, come se si fosse volatilizzata. L’aria era ancora pervasa dal suo profumo.
Imbarazzato l’uomo si alzò, recuperò il proprio mantello e uscì dal salottino, cercando un qualunque membro della servitù per farsi chiamare una vettura. L’idea gli sembrava stupida ma non riusciva ad opporsi ad essa: come se la sua volontà fosse diretta da qualcun altro. «Sei uno stupido, Abberline», si disse. Trovò il maggiordomo e lo pregò di chiamare una carrozza, quello rispose, con voce atona «Già fatto». Un brivido freddo corse lungo la schiena del poliziotto.
Non dovette attendere molto: la dama comparve accanto a lui. Si accorse solo in quel momento della sua effettiva altezza, lo superava di qualche pollice. Indossava un largo cappello che ne teneva celato il viso e i capelli. Sopra gli abiti maschili aveva sistemato un lungo mantello nero.
«Andiamo», a lunghe falcate lo precedette fuori. L’aria era fredda e sbuffi di fumo si confondevano con lo smog provocato dalle ciminiere. «Serata ideale per uscire», commentò lei aprendo la portiera della vettura e scomparendo all’interno. Abberline la raggiunse di corsa e diede al conducente l’indirizzo del London Hospital, dove le sventurate erano state portate per l’autopsia.
Se erano fortunati sulla Eddowes il medico aveva già effettuato l’autopsia, altrimenti avrebbero dovuto attendere.
Il Big Ben suonò le 11 quando la carrozza si fermò davanti all’ingresso dell’ospedale. Abberline pagò e i due varcarono la soglia. Un’infermiera stava seduta dietro un bancone di legno. Mostrando il suo distintivo l’Ispettore chiese del chirurgo Thomas Bond. La donna chiamò una sua collega e le ordinò di accompagnare i due uomini dal medico. 
La giovane infermiera li precedette lungo un intrico di corridoi fino alla morgue, qui il medico aveva appena terminato un’autopsia su un giovane uomo ucciso con una coltellata all’addome.
«Dottor Bond, l’Ispettore Abberline per voi». Fece una riverenza e tornò alle sue incombenze. Bond si alzò dalla sedia e accolse Abberline e il suo accompagnatore con un sorriso, nonostante la stanchezza.
«Ispettore, cosa posso fare per voi?», domandò con curiosità.
Le parole uscirono dalla bocca dell’ispettore come se le stesse recitando a memoria, «Questo è un mio nuovo collaboratore alle indagini dello Squartatore. Potete mostrargli l’ultima vittima, in modo che si faccia un’idea del tenore degli omicidi». Bond sgranò gli occhi e osservò con maggiore attenzione lo sconosciuto che si accompagnava all’Ispettore. Era alto, il viso era nascosto in parte dalla tesa del cappello ma colse un brillio crudele negli occhi. «É di là», indicò con un dito la sala autopsie e si incamminò. «Preparatevi, è uno spettacolo che ha fatto cedere anche gli stomachi più forti ed abituati a questo genere di cose», aggiunse mentre facevano il loro ingresso nell’enorme sala sotterranea. Una fila di una decina di tavolacci in legno era disposta in due file parallele. Solamente quattro tavoli erano liberi. Il corpo della sventurata, uccisa nelle prime ore del mattino del 30 settembre in Mitre Square, si trovava sulla sinistra, tra quello di un giovanotto e di un ubriacone. «Ho già effettuato l’autopsia, sapendo l’importanza del caso e il resoconto dovrebbe essere già sulla vostra scrivania. L’ho inviato poche ore fa», aggiunse il chirurgo. «Non sono passato dal commissariato», rispose Abberline evasivo, «Lo leggerò domani mattina...Intanto se volete anticiparmi quanto avete potuto scoprire dall’esame del corpo della vittima, qualche indizio che potrebbe rivelarsi risolutivo».
La voce non ammetteva repliche e il medico si profuse in una dovizia di particolari non richiesta su ciò che aveva scoperto.
Da sotto il colletto della camicia si intravedeva l’incisione dell’autopsia, ancora rossa e appena al di sotto del segno lasciato dall’affilato coltello di Jack. Un’altra mutilazione inferta alla donna da un uomo, pensò la ragazza in abiti maschili lanciandole un’occhiata. Il puzzo nella sala era penetrante ma lei non vi fece caso, ciò che le interessava era osservare l’opera di Jack. «La testa, come negli altri casi, era quasi staccata dal collo - il medico spiegò indicando la lacerazione profonda -. Dopo questo gesto, ha spostato il suo interesse verso le sue parti basse, con particolare accanimento, mutilandola. Potrebbe essere una vendetta o un regolamento di conti o potrebbe esserci una qualunque altra spiegazione. La mano è la medesima dei precedenti omicidi. Il fatto di essere stato interrotto durante l’uccisione della Stride - Bond indicò il tavolo di fronte - può aver scatenato in lui un desiderio di rivalsa, portandolo quindi ad accanirsi con particolare violenza sulla Eddowes». 
Il giovane accompagnatore di Abberline si scostò dai due uomini e si chinò sulla donna, concentrandosi sulla sua gola. Sapeva cosa cercare. Bond lo guardò con curiosità, quel ragazzino aveva un sangue freddo che non aveva mai trovato in nessun poliziotto, prima di allora, e spesso nemmeno nei suoi colleghi. «Potreste scostare i lembi del colletto», gli domandò il giovane. Bond si adoperò per liberare l’area il più possibile quindi lasciò il giovane alle sue osservazioni e tornò da Abberline, che in un angolo della stanza fumava un sigaro.
Gli occhi si mossero veloci lungo la cicatrice del taglio alla gola, scorgendone le irregolarità volute. L’assassino aveva cercato di nascondere qualcosa con quel taglio. La sua vista acuta, infine, colse ciò che sta cercando. Troppo piccoli per essere visti durante un’autopsia veloce: due fori alla base del collo. Qualcuno l’aveva morsa e poi le aveva squarciato la gola per fare in modo di nascondere i segni. 
Si sollevò e raggiunse il medico e l’Ispettore. Sul suo viso si poteva leggere soddisfazione ma il sorriso era serio e venato da una punta di preoccupazione. Sembrava che quel giovane agente avesse fatto delle scoperte importanti nei pochi minuti in cui aveva osservato il cadavere. Senza dire una parola, il giovane strinse la mano al medico, una stretta forte che lasciò la mano di Bond dolorante, lo ringraziò del privilegio concessogli, quindi abbandonò la sala autopsie seguito da Abberline.
Si fecero chiamare una carrozza e attesero nella hall, in silenzio. Fecero ritorno alla palazzina e al salottino. L’Ispettore fu lasciato da solo mentre la sua ospite andava a cambiarsi, dopo pochi minuti fece il suo ingresso con indosso i medesimi abiti del loro incontro. Aveva un’aria preoccupata. 
Abberline attese spiegazioni ma lei lo congedò. «Devo pensare. La manderò a chiamare appena possibile», gli disse in modo sbrigativo accompagnandolo alla porta. L’Ispettore, invece che andare a casa, tornò al commissariato per leggere il referto dell’autopsia. Sperava che il medico avesse aggiunto qualche particolare ma dovette ricredersi. 
Non diceva niente di più di quello che già aveva saputo poco prima.
Dopo di allora nessun altro messaggio gli era stato recapitato, fino a quel pomeriggio dell’undici novembre e lui non aveva resistito ed era andato da lei. Come le altre volte.

Pomeriggio dell’undici Novembre 1888

Abberline fu ben felice di rivedere il maggiordomo in livrea nera e il viso smunto. Il vecchio si fece di lato per farlo accomodare. «Siete atteso», gli comunicò con voce profonda e grave.
L’Ispettore entrò, timoroso come le altre volte e di nuovo si trovò nello stretto ingresso della casa di Lord Alvers. La casa era immersa nella quasi totale oscurità e alcune lampade creavano isole di luce in quell’altrimenti oceano di buio. Il maggiordomo allungò un braccio e gli indicò la via, precedendolo di pochi passi. Lo condusse nel solito salottino con caminetto. Le persiane erano chiuse e pesanti tende di velluto erano tirate. Non uno spiraglio di luce avrebbe potuto penetrare nell’ambiente. Il fuoco scoppiettava, creando forme danzanti sulle pareti, e una lanterna ad olio spandeva la sua calda luce permettendo all’uomo di legge di avanzare senza correre il rischio di inciampare.
Una figura maschile era seduta su una delle poltrone, vicino al fuoco, e sembrava perso nella lettura di un vecchio volume ma quando Abberline fu più vicino egli parlò. «Aveva detto che sareste arrivato non appena ricevuta la sua lettera. Non la sopporto quando fa in quel modo». 
L’uomo si alzò, appoggiando sul vicino tavolino il libro, e tese la mano. «Ispettore Abberline», si presentò l’ospite e quello gliela strinse con un tale vigore da fargli scricchiolare le ossa. «Un piacere fare la vostra conoscenza, signor Ispettore. Ero curioso di incontrarVi. Negli ultimi due giorni ho sentito parlare molto di voi». Abberline sentì il viso avvampare a quell’affermazione. «Non arrossite per favore - aggiunse il suo interlocutore, serio -. Non sono così sicuro che avrete ancora voglia di sorridere dopo che avremo parlato». Frederick Abberline tremò, gli occhi del giovane uomo erano neri e con una luce crudele nel profondo: occhi da squalo, pensò il poliziotto, ricordando quando anni prima aveva visto i grandi animali marini all’acquario.
«Sono qui per...», non riuscì a terminare la frase e dalla tasca del cappotto estrasse la missiva, sventolandola davanti all’uomo. «Vi stavo aspettando. Come vi ho detto, Lei sapeva che sareste corso qui non appena letta. Venite con me, poi parleremo. Devo mostrarvi qualcosa»·
Lo superò, invitandolo a seguirlo. Si muoveva in quella quasi totale oscurità con sicurezza e condusse Abberline fuori dalla stanza e lungo un corridoio stretto e altrettanto debolmente illuminato. Durante il tragitto rimase in silenzio e, dopo non più di cinque minuti, si fermò davanti ad una porta. «Fate piano Signor Ispettore», gli disse, aprendo la porta e permettendogli di sbirciare all’interno. Si trattava di una sontuosa camera da letto e, per quello che la luce introdotta dallo spiraglio lo permetteva, Abberline poté vedere un grande letto. Le tende del baldacchino erano state lasciate aperte e vide la ragazza stesa, sotto le coltri. Sembrava addormentata ma dal pallore del suo viso avrebbe anche potuto essere morta.
Fece per dire qualcosa ma il suo ospite gli fece cenno di non parlare portando l’indice alle labbra. Chiuse la porta e si incamminò di nuovo lungo il corridoio, seguito da un sempre più perplesso ispettore. 
In pochi minuti si ritrovarono nel salottino, dove aveva incontrato la fanciulla le altre volte. Qualcuno, durante la loro assenza, aveva provveduto a ravvivare il fuoco e ad aggiungere un paio di altre lampade. Ora l’ambiente era decisamente più confortevole. 
Si accomodarono sulle poltrone e dopo pochi minuti una cameriera portò un grosso vassoio con il tea. «Ho pensato che avremmo chiacchierato più volentieri davanti a una tazza di tea», spiegò il giovane. Abberline annuì e prese la tazza che la servante gli porgeva: il liquido ambrato ondeggiava appena. Ne aspirò, con soddisfazione, l’aroma e sorrise al suo ospite, ma il misterioso giovane non lo ricambiò. 
Afferrò un calice e si apprestò a bere un liquido rosso, identico a quello che aveva sorseggiato la ragazza durante il loro ultimo incontro.
«Ora veniamo a noi» disse, posando il bicchiere, ormai vuoto, sul vassoio e fissando il suo occhio - l’altro era coperto da una benda nera e da un lungo ciuffo di capelli neri - sull’ispettore. Si appoggiò allo schienale e sembrò rilassarsi. «Penso che comprendiate la necessità della riservatezza in tutta questa vicenda. - proseguì lo sconosciuto, con un’espressione seria -. É stata ferita da quel pazzo sadico maniaco di Devan per aiutare voi, e meno male che prima di perdere i sensi è riuscita a mandarmi un messaggio mentale, in questo modo sono riuscito a trovarla e portarla, al sicuro, in questa casa. Non oso immaginare cosa sarebbe successo se fosse finita, in quelle condizioni di estrema debolezza, nelle mani di qualche mortale. Io non mi fido di voi umani». L’ultima frase fu pronunciata con una chiara nota di disprezzo.
Abberline non capiva ma si sentì in dovere di assentire.
«Questa è la fine della storia - aggiunse ancora lo sconosciuto -. Ditemi, piuttosto, come è cominciata. Come è successo che Lei si sia trovata ad affrontare in duello, di nuovo, Devan...o come aveva deciso di farsi chiamare lui Jack lo Squartatore. Sapevo che sarebbe successo, ma dopo tutti questi secoli pensavo che fosse ormai impossibile...E non sono stato in grado di impedirlo, o almeno di proteggerla». La sua espressione si oscurò di un velo di tristezza.
Tacque e per qualche minuto i due uomini rimasero in silenzio, scrutandosi a vicenda. Infine Abberline esordì «Lord Alvers...», ma prima di riuscire a proseguire nel suo racconto, fu interrotto dallo sconosciuto. «Perdonatemi ma io non sono il padrone di questa casa. Il vostro Lord Alvers ha ceduto al suo fascino e le ha permesso di risiedere in questa magione...come amica. Al momento il proprietario di questa pregevole dimora è lontano da Londra, ma le ha permesso di restare a sua discrezione. Per quel che riguarda me, potete chiamarmi Warfield».
L’ispettore era allibito, si chiese se dovesse emettere un mandato di ricerca per Lord Alvers e scoprire se era fuori Londra, come sostenuto da questo Warfield. «Potete stare tranquillo, Ispettore - gli disse il gentiluomo -. Se volete posso darvi l’indirizzo dove è ospite Lord Alvers e potrete controllare personalmente. Per nostra scelta né Lei né io siamo usi ad ammazzare i nostri amici, soprattutto se ci permettono di vivere in un lusso come questo». Indi gli fece cenno di proseguire.
«Mr. Warfield l’inizio di questa storia...il 31 agosto colui che in seguito si è identificato come Jack lo Squartatore ha ucciso una sventurata a Whitechapel. Alla fine del mese di settembre, in una sola notte, ne ha ammazzate due. Due sventurate dilaniate...Dopo questo duplice omicidio la vostra amica mi ha contattato e si è offerta di risolvere il problema. Sembrava sapere così tanto su questo personaggio che si firmava Jack lo Squartatore».
Tacque, pi riprese. La voce seria sembrava appesantita da un peso: «Forse se avessi accettato subito l’aiuto che lei mi stava offrendo, Mary Jane Kelly sarebbe ancora viva...».
Stava per proseguire quando la fanciulla fece la sua comparsa: indossava una pesante vestaglia di velluto nero, i capelli sciolti sulle spalle circondavano il viso, pallido e livido, ed erano di un rosso così intenso da sembrare fiamma viva. Warfield scattò in piedi e le si fece accanto. «Non dovevi alzarti, la ferita non è del tutto guarita...», le disse, accompagnandola verso il divano, con apprensione. Nonostante l’estremo pallore, dal suo corpo e dai suoi occhi si sprigionava energia e quella che Abberline interpretò come una forte voglia di vivere.
«Stai zitto! Non sto così male e non ne posso più di restare a letto, in quella stanza chiusa come se fossi in prigione», gli rispose secca, ma la voce suonava affaticata. «Inoltre il nostro caro Ispettore merita di sapere che fine ha fatto uno dei suoi più temibili avversari». 
Si sedette, sistemando la vestaglia come se fosse il più pregevole degli abiti. Il suo sguardo, al contrario della sua voce, guizzava dall’uomo di legge al suo fidato amico.
Warfield scosse la testa ed uscì dalla stanza, diretto chissà dove. «Il solito esagerato il buon Woulf. Non fateci caso, Ispettore, non è così noioso, di solito. É  preoccupato per me. Passa la sua non vita a preoccuparsi per me, come se ce ne fosse bisogno», sogghignò poi divenne seria.
«Potete dare alla città la notizia che lo Squartatore non importunerà più le prostitute di Whitechapel o di qualunque altro quartiere di questa splendida città», annunciò, infine, e si concesse un sorriso. Abberline colse il baluginio dei suoi denti bianchissimi, notando quanto quelle piccole perle fossero affilate. «Non preoccupatevi per me - aggiunse allargando le braccia per mostrare all’Ispettore che niente del suo bel corpo era stato deturpato -. Come vedete, non sono messa male come Woulf vuole credere. Basteranno un altro paio di giorni di riposo e starò bene. Non dovete fare quella faccia preoccupata. Non è colpa vostra, lo scontro tra Devan e me era solo questione di tempo». La sua voce ora aveva assunto un tono suadente e sensuale, che fece rizzare i capelli al poliziotto.
Abberline assentì e si morse il labbro. La curiosità di sapere come lei aveva potuto finire uno omicida come Jack lo divorava. Come già avvenuto durante i loro precedenti incontri, lei sembrò leggere nella sua mente. «Saprete tutto a breve, Ispettore», gli rispose.
Dopo poco minuti Woulf fece ritorno nel salottino, portava un vassoio con un calice di cristallo e una brocca con quello che sembrava vino. Quando la giovane vi gettò lo sguardo, gli occhi si accesero di un brillio famelico. Afferrò il bicchiere e la brocca, lo riempì e lo scolò in un sol sorso, poi si leccò le labbra e sorrise. «Molto meglio. Molto meglio». La sua voce sembrava un miagolio soddisfatto. Volse, a quel punto, lo sguardo verso Abberline. «Siete pronto per un viaggio all’Inferno, Ispettore?». Il tono delicato suonava glaciale.
L’uomo increspò le labbra ma non rispose, temeva ciò che ella stava per raccontargli. Woulf appariva nervoso, ma cercava di mascherare la sua inquietudine. Il solo pensiero di quello che avevano condiviso quella ragazza e Devan gli infuocava il petto di una gelosia mortale.
Lady Angeline si ravviò la chioma e diede inizio al suo racconto.
«Devo ammettere che pur essendo a Londra da qualche mese non ho avuto sentore della presenza di Devan fino a dopo la metà di settembre. Percepivo la sua vicinanza ma non abbastanza da cogliere con chiarezza le sue intenzioni. Se così fosse stato, me ne sarei occupata molto prima che giocasse al chirurgo pazzo con la prima delle vostre derelitte. Avrei chiuso i conti con lui e con ciò che c’era stato tra noi in modo definitivo. Un singolo duello mortale».
Tacque, lasciando decantare le sue parole nella mente dei due uomini. «Chissà poi tutta questa necessità di venire a Londra», bofonchiò contrariato Woulf. La giovane donna rise, «Divertimento mio caro, puro divertimento...mi annoiavo al castello. Ne converrai che ciò che Londra può offrire è unico al mondo». Woulf tacque ma Abberline poté cogliere la sua contrarietà sull’argomento.
«Lord Alvers - proseguì poi lei - fu così gentile da permettermi di risiedere in questa deliziosa casa e volle rifornirmi di tutto ciò di cui avrei potuto aver bisogno. Si offrì anche di farmi da chaperon alle occasioni mondane più importanti, presentandomi a molti suoi amici».
Si fermò un momento, allungò una mano e la mosse: la brocca si mosse da sola sollevandosi dal tavolino. Il liquido si versò nel bicchiere, poi il pregiato pezzo di cristallo tornò al suo posto. Il calice si alzò e si mosse lentamente verso Lady Angeline, che lo afferrò e ne degustò il contenuto con evidente soddisfazione.
«Niente di meglio», commentò prima di riprendere il racconto, reggendo ancora il bicchiere. «Il turbine della vita londinese mi ha inghiottita e, dopo secoli di quasi obbligata reclusione dal mondo, mi sono concessa un po’ di distrazione. Voi umani sapete essere divertenti quando volete, senza dubbio il gusto del vostro sangue ne guadagna». Woulf accusò la velata frecciata: lei se ne era andata per la sua poca fiducia verso il genere umano e la sua decisione di non abbandonare i confini del castello che era appartenuto alla famiglia di origine di lei e, in un certo modo, l’aveva costretta a fare altrettanto. Alla fine dell’anno precedente lei era fuggita, senza dargli notizia...fino all’alba del 9 novembre, quando l’aveva trovata ferita. Non aveva avuto il coraggio di dirle che era a Londra da qualche settimana e che la seguiva da lontano, ragione per cui era riuscito ad arrivare in tempo e a metterla al sicuro prima che il sole la dissolvesse in polvere. Forse lei lo sospettava ma se anche era così, non gliene aveva parlato.
Angeline gli lanciò uno sguardo di sbieco, osservando la sua reazione, poi proseguì. «Devan, il vostro Jack lo Squartatore, deve essere arrivato a Londra non prima della metà di luglio. Fu una notte fresca, un vento marino mi portò il suo odore. Non dovevamo essere separati da molte miglia, probabile che fosse già a Whitechapel. Nemmeno ora posso dirvi cosa possa averlo spinto a commettere quegli atroci omicidi, dopo essersi nutrito di quelle povere umane. Era un sadico e un pazzo, questa potrebbe essere la sola spiegazione. Posso ipotizzare che lo squarcio alla gola fosse un tentativo di nascondere i fori dei suoi morsi e il fatto che le abbia quasi decapitate potrebbe essere dovuto al fatto che temeva potessero risvegliarsi come vampiri a loro volta. Sul perché abbia infierito sul resto del corpo, non posso dirlo ma potete essere sicuro che l’opera era sua. Ho riconosciuto il taglio della sua lama. Come ho detto, amava giocare con voi umani, provava un senso di invincibilità di fronte alla vostra caducità e debolezza. Lo faceva sentire onnipotente».
«Devan era solo un folle», ringhiò Woulf e Angeline gli prese una mano. «Ormai è dissolto, le sue polveri si sono mischiate con lo smog di questa città. Non nuocerà più a nessuno, inutile continuare a parlare di lui».
Abberline ascoltava quello strano racconto, pallido e sudato. La nobildonna gli rivolse un sorriso, aperto ma crudele. Lui poté vedere i suoi denti lunghi e acuminati: questa volta mostrati senza pudore. «Woulf, fai preparare un brandy per il caro Ispettore, temo che potrebbe aver bisogno di essere rinfrancato, alla fine di questa storia». Woulf fece un cenno con il capo e si dissolse, sembrava ormai che le due creature avessero deciso di non nascondersi oltre. «Sembra un modo molto comodo di spostarsi», abbozzò Abberline, allargando le labbra in un sorriso forzato. «Molto comodo. É così che Woulf mi ha trovata e portata in salvo. Sarei divenuta cenere se il sole mi avesse colta su quel tetto, lontana da ogni riparo. La ferita inferta dalla spada di Devan era più profonda di quanto mi fosse apparso all’inizio e a fanciulle come me non fa bene perdere troppo sangue. Grazie agli dei oscuri guarisco in fretta. In ogni caso nonostante la ferita sono riuscita a trapassare il suo cuore. Questo l’ha quasi ucciso e questo mi ha dato il vantaggio, gli ho staccato la testa di netto. In pochi secondi si è dissolto in cenere e il vento l’ha portato chissà dove...Londra è ora al sicuro», rispose Lady Angeline, seria. 
Di lì a pochi minuti Woulf riapparve, reggendo in mano una bottiglia, contenente un liquido ambrato, ed un bicchiere di cristallo. «Direttamente dalla riserva personale di Alvers», disse, porgendoli ad Abberline, che se ne versò una generosa dose e la buttò giù in un sorso. L’uomo uscì, senza aggiungere altro. Abberline lo seguì con lo sguardo e poi tornò a guardare la giovane seduta di fronte a lui. «Woulf non ama sentir parlare di Devan», spiegò brevemente.
La donna accavallò le gambe, un lembo della vestaglia nera si scostò rivelando una gamba inguainata in quello che sembrava un paio di pantaloni neri e alti aderenti stivali neri.
Si sistemò una ciocca di capelli e riprese il racconto. «Fu solo dopo l’omicidio dell’8 settembre che compresi che il responsabile doveva essere Devan. Non solo lo sentivo sempre più vicino, sebbene fosse chiaro che il suo obiettivo non ero io, ma mi appariva chiara l’escalation della sua follia e il suo desiderio di morte. Per questo vi contattai: sapevo che non avreste mai avuto la possibilità di trovarlo ed eliminarlo, non senza il mio aiuto. Come già vi ho spiegato».
Il tono della sua voce assunse un tono che alle orecchie dell’Ispettore suonava mesto, era ben consapevole che se le avesse dato credito la prima volta che si erano incontrati l'assassino che si firmava «Jack» sarebbe stato fermato prima che compisse quella strage di sangue. Abberline abbassò gli occhi sentendosi in colpa. La sua riluttanza era costata parecchie vite.
«Devan era un vampiro, se non vi fosse ancora chiaro. Come lo siamo Woulf ed io. Creature della notte, tornate dalla tomba e che si nutrono di sangue umano per, diciamo, vivere». 
Quell’ultima affermazione causò un colpo di tosse violento all’Ispettore, che si era servito di una generosa seconda dose di liquore e aveva accostato il calice alla bocca. Il liquido si sparse intorno, macchiando il tavolino e il tessuto della poltrona. L’uomo si guardò intorno con aria contrita ma la dama rise. «Non crucciatevi, mio buon Ispettore, qualcuno della servitù pulirà». A sua volta bevve un secondo bicchiere di liquido rosso e per un momento una tonalità di rosa animò le sue guance altrimenti color avorio. 
«Devan apparteneva alla stirpe oscura», proseguì la fanciulla. Il tono della sua voce era diventato serio e grave. «Da secoli ci mischiamo a voi umani, sembriamo come voi ma non lo siamo. Ci nutriamo del vostro sangue e la vostra caducità è fonte di potere per noi».
Abberline ascoltava impietrito quelle rivelazioni incredibili. La misteriosa Lady Angeline sorrideva compiaciuta.
«Non dovete temere, la maggior parte di noi si confonde tra la folla, celati a voi mortali in piena vista. Sembriamo come voi ma non siamo come voi. Ci nutriamo del vostro sangue ma non sempre arriviamo ad uccidere. Quelli di noi che si comportano come Devan sono rari, in questi tempi così evoluti, non dovete temere che altri tentino di emularlo. La vostra bella città è al sicuro, ve lo posso assicurare».
Abberline ristette in silenzio, attendendo altre spiegazioni ma non ne giunsero altre. La vampira si alzò in piedi e l’uomo si incantò ad osservare l’eleganza. Lei si voltò verso di lui, «Ispettore non dovreste pensare certe cose di me». La voce tagliente aveva una nota allegra. L’Ispettore si alzò a sua volta, rispettoso nei confronti della dama. «Ora è meglio che voi andiate. Non manca molto all’alba e per me è giunto il momento di ritirarmi».
Una cameriera comparve alla porta del salottino e scortò Abberline fino all’ingresso e fu fatto accomodare all’esterno della casa di Lord Alvers. Volse il viso verso la magione, ad una finestra scorse il viso di Woulf, o Warfield, che lo osservava con espressione seria. L’uomo di Scotland Yard rabbrividì appena, mentre si incamminava verso casa. Era ancora sconvolto da ciò che gli era stato raccontato e rimuginava sulle rivelazioni che gli erano state fatte.
Se non avesse visto i prodigi di cui gli ospiti di Lord Alvers erano capaci, non avrebbe creduto alla possibilità che esistessero, in quel crogiuolo di modernità che era Londra, esseri non umani. Il poliziotto che era in lui ripeteva che quei due potevano rappresentare una minaccia a loro volta per la popolazione della città, al pari di Jack the Ripper. Una parte del suo io, invece, gli ricordava che solo grazie all’intervento di Lady Angeline il pericoloso omicida era stato fermato e la pace restituita non solo alla capitale ma anche alla sua vita. Aveva nei suoi confronti un debito di gratitudine, aveva salvato la sua carriera. Restava solo il problema di dare una spiegazione plausibile alla fine degli omicidi di Jack. Serviva alla popolazione, alla Casa Reale, a lui e agli altri poliziotti.Ci avrebbe pensato nei giorni seguenti, ora serviva un sistema perché le non fosse associata a quel caso.

«Saprò mantenere il segreto, non parlare di lei. Fare in modo che nessuno dei miei colleghi pensi che lei possa sapere qualcosa o essere in qualche modo implicata», rimuginò tra sé mentre si dirigeva verso un tassì. «In fondo nessuno sa niente di lei, appare solo come una visitatrice occasionale del commissariato. Tante donne passano dai nostri uffici tutti i giorni, cercando sostegno. Altre volte offrendolo. Nessuno la collegherà a me e al caso dello squartatore. E le sue lettere sono tutte in mano mia, basta che le distrugga e nessuno potrà a venire a conoscenza di questo suo coinvolgimento».

martedì 15 ottobre 2013

CRONACHE DALLA FORESTA DI KHUN



Nell'impenetrabile e vastissima foresta di Khun (che nessun geografo era mai riuscito a riprodurre su una mappa definendone i confini), tra tutte le creature leggendarie che vi avevano trovato rifugio nel corso dei secoli, l’unicorno era sempre stato considerato animale sacro ed intoccabile per eccellenza. Dagli uomini era indicato come simbolo di coraggio indomito in battaglia, perché nonostante la sua natura mite non si era mai tirato indietro per difendere il proprio territorio e i propri simili, se minacciato. Le donne lo consideravano emblema di purezza e di umiltà, perché per quanto fosse una creatura dalla straordinaria e superba bellezza - dalla linea snella ed elegante del corpo alle lunghe zampe dagli zoccoli dorati o argentati, per le lunghe criniere e code fino ai dolcissimi occhi, che potevano avere il colore del cielo o essere di un intenso viola o ancora di un cangiante bianco oppure per i lunghi corni ritorti che spiccavano al centro della fronte - non amava pavoneggiarsi come era costume, invece, di certe creature come il pavone o i grossi felini che si nascondevano nei recessi più bui dell’intrico di rami, arbusti, alberi e sottobosco che era la foresta di Khun.
A rendere questo leggendario animale ancor più benvoluto dall’uomo era la sua intelligenza, definibile al pari di quella umana. Secondo alcuni, che sostenevano di avere avuto incontri con queste creature, alcuni di essi possedevano il prezioso dono della parola, un attributo che durante il governo di taluni regnanti avevano portato rappresentanti di questa specie a palazzo, dove erano stati assurti al ruolo di consiglieri del re - dimostrando in parecchie situazioni maggior giudizio e buon senso di chi sedeva sul trono -.
Numerose erano le leggende e le storie che su questo mitologico animale circolavano, e tutte lo indicavano come protagonista di gesta eroiche e di grande generosità nei confronti di qualunque creatura abitasse nella foresta di Khun, ma vi era stato un lungo lasso di tempo in cui coloro che le conoscevano non avevano osato narrarle, e nel breve volgere di poche generazioni erano state quasi del tutto dimenticate. Le storie sugli unicorni erano state soppiantate da quelle delle azioni degli uomini e queste erano legate ad uno dei periodi più bui e terribili che la storia umana avesse vissuto, un evo che era stato caratterizzato da pestilenze, guerre, ladrocini, violenze, soprusi nei confronti della popolazione del regno di cui la foresta di Khun faceva  parte. Si era trattato di un periodo che veniva - quelle rarissime occasioni in cui era nominato - come il periodo successivo a "la morte dell’ultimo unicorno". 
Non che questa specie si fosse del tutto estinta durante quegli anni terribili ma quello che portò la gente a definire in quel modo quel lungo lasso di tempo fu una decisione presa dal sovrano in persona. 
All'incirca alla metà del suo regno Re Horgas - passato alla storia con il ben poco nobile appellativo di «l’oppressore» - decise che credere alle creature magiche, che si affermava abitassero i recessi della foresta di Khun e forse qualche altra regione limitrofa ad essa, fosse da primitivi e da selvaggi. 
Decise quindi di emettere numerosi decreti in cui si vietava al popolino di parlare di quegli argomenti, ai poeti impose di non cantare mai più le avventure e le storie e ai bambini di dare vita a giochi che da quelle favole prendessero spunto. Fece circolare nuove storie in cui lui e i suoi cavalieri erano protagonisti, agli aedi fece comporre nuovi poemi in cui i fatti della guerra, o gli amori di palazzo erano i principali temi e infine equiparò gli unicorni alle più normali specie animali che vivevano nelle foreste come cervi, lupi, scoiattoli e tutto ciò che era considerato cacciabile e così anch'essi cominciarono a cadere sotto le frecce dei cacciatori e in breve i pochi esemplari rimasti a quella carneficina si nascosero nei luoghi più remoti del bosco. 
Pochi anni dopo quegli editti quando un giovane cacciatore portò al re il corpo senza vita di un anziano unicorno. La criniera, che un tempo doveva essere stata di un fulvo dorato era candida, il corno era smussato dalle battaglie che aveva sostenuto durante la gioventù e che l'avevano lasciato privo di un occhio e con il corpo ricoperto da molteplici cicatrici. Quando il vecchio sovrano vide il corpo senza vita dell'animale domandò al giovane se quello era l'ultimo della sua specie. Il cacciatore assicurò che quello era senza ombra di dubbio, o possibilità di smentita, l’ultimo esemplare di quella razza, l’ultimo unicorno della foresta di Khun e probabilmente di tutto il mondo conosciuto. Horgas era scoppiato in una sonora risata a quella risposta, soddisfatto per quanto era riuscito a compiere: ora il popolo non parlava più delle stupidaggini fantastiche ma si industriava per guadagnare i soldi per pagare le tasse (che di anno in anno aumentavano sempre di più per consentire alla corte di mantenere un tenore di vita elevato e lussuoso) e nessuno osava contrastare alcuna decisione del sovrano, né in tempo di pace e tanto meno in tempo di guerra. 
Horgas diede ordine di scuoiare l'unicorno e appendere la pelle e il corno nella piazza principale di modo che tutti venissero a conoscenza che nella foresta di Khun non vi era più alcun animale di fantasia ma solamente concrete bestie che si potevano cacciare per ricavare pellami e carne da vendere nei mercati o per uso personale (consentito dopo che era stato pagato uno scellino di tassa in quanto Horgas aveva emesso un editto in cui inseriva nei possedimenti della sua casata la foresta di Khun, azione del tutto arbitraria).
Il cacciatore che aveva portato l'ultimo unicorno aveva lasciato la carcassa dell'animale ai guardaboschi del re e se ne era andato, rifiutando la ricompensa che il sovrano voleva elargirgli, sostenendo che era stato solo un caso fortuito che la sua freccia avesse colpito l'unicorno. Se ne era andato e nessuno l'aveva più visto o ne aveva sentito parlare per parecchi anni anche se qualcuno sosteneva di averlo visto aggirarsi per la foresta con gli occhi da folle ripetendo frasi sconnesse poi era semplicemente svanito.
Gli editti emanati da Horgas, culminati con lo sterminio indiscriminato degli unicorni sortirono come effetto principale un inaridimento degli animi della popolazione, la quale rivolse i propri pensieri esclusivamente ad attività più terrene e più produttive, dall'agricoltura al commercio. Nel breve volgere di un decennio nessuno fu più in grado di ripetere le storie sulle gesta di Horgas e di comporre più poesie, le arti scomparvero e per farsi fare un solo ritratto era necessario valicare i confini del regno e, tranne che a palazzo, non si festeggiavano più ricorrenze o festività. La vita era un serie di giorni lavorativi in fila uno dietro l'altro, cosa che comunque era diventata una necessità per sostenere il peso dei balzelli. Spesso nelle famiglie si arrivava a far interrompere ai figli gli studi per mandarli a fare i garzoni di bottega e il popolino divenne una massa ignorante e succube degli editti del re di turno.
Horgas l’oppressore morì qualche settimana dopo l'uccisione dell'ultimo unicorno, in maniera molto misteriosa ma colui che governò dopo di lui e i successivi sovrani non furono migliori. Un paio di secoli dopo salì al trono un tale Kershen, che per qualche strano incrocio di destini e di matrimoni era arrivato ad essere l’ultimo in linea di successione della casata cui apparteneva Horgas. 
Quasi trecento anni si erano succeduti tra guerre, ladrocini, carestie, pestilenze, governanti incapaci che dissanguarono il popolo con tasse, balzelli, tributi, imposte e gabelle che svuotarono le tasche dei cittadini per andare a rimpinguare quelle del palazzo dove la corte viveva in uno sfarzo sfrenato mentre i più non avevano di che mettere insieme il pranzo con la cena.
E se durante il regno di Horgas e dei suoi successori la popolazione se la passava male nemmeno per l’esercito le cose andavano bene. Il paese viveva un costante stato d’assedio e l’esercito doveva tenere a bada invasioni quasi continue.
Nel corso dei decenni Horgas prima e poi i suoi eredi avevano proceduto a smantellare la potente macchina bellica che era stato l’esercito. I soldati erano in costante servizio attivo, sottopagati, sfruttati e disprezzati dai cortigiani che facevano la bella vita a palazzo.
Solamente un esiguo numero di guarnigioni erano mantenute negli avamposti considerati strategici in caso di attacco nemico. 
L’unico ordine che quei generali avevano ricevuto da ogni nuovo sovrano che posava il proprio sedere sul trono e si metteva la corona in testa consisteva nel proseguire a combattere contro possibili invasori ma in nessun caso avvertire il re o la capitale perché, come più di un re aveva spiegato quando li aveva convocati in udienza impartendo quelle direttive, «Dopotutto erano faccende militari e non interessavano nessuno nel regno» e quella frase era divenuta di rito ad ogni nuova incoronazione. In non poche occasioni i supremi comandi dell’esercito non si erano trovati d’accordo e avevano tentato di far cambiare idea ai governanti ma alla fine avevano dovuto accettare quella decisione, soprattutto dopo che uno dei tanti re cui si erano rivolti aveva fatto capire loro che se i suoi ordini non fossero stati rispettati la prima conseguenza per loro sarebbe stata la detenzione per qualche tempo nelle galere del palazzo nei casi migliori, nei casi considerati più gravi la detenzione a vita e se avessero subodorato un tentativo di tradimento la sentenza prevedeva la morte per impiccagione o per decapitazione.
Nel corso del governo di Horgas e dei suoi successori le sorte del regno furono rette sopprimendo ogni tipo di contestazione o moto di ribellione servendosi di una polizia segreta. In quegli anni terribili parecchie migliaia di persone finirono nelle prigioni reali oppure scomparvero, senza che alcuno riuscisse a sapere che fine avessero fatto.
Il periodo che aveva fatto seguito a "la morte dell’ultimo unicorno" ebbe fine nello stesso modo in cui aveva avuto inizio, con un’incoronazione, un matrimonio e un battesimo e qualche editto reale.
Quando il giovane principe Kershen salì al trono prese in moglie la duchessa Mathilda e tutti, dal più umile servitore fino al più alto prelato, dai nobili di basso lignaggio a quelli imparentati con la famiglia reale, dall’ultimo soldato al supremo comandante, sperò che quel giovane che aveva studiato in paesi lontani ed era stato allevato secondo leggi e regole diverse da quelle che i suoi antenati avevano emanato nel corso dei secoli si rivelasse migliore di chi lo aveva preceduto. 
E per una volta gli dei ascoltarono le preci e le invocazioni di quegli uomini e di quelle donne. 
Dopo l’incoronazione il nuovo sovrano cominciò un lento lavoro di sistemazione della legislatura del regno, tra cui un editto che metteva fuorilegge la caccia agli unicorni. I suoi segretari e consiglieri non approvarono quell’idea e capirono che dovevano far qualcosa per mantenere lo status quo quando egli inviò ad esplorare la foresta di Khun alcuni suoi fedeli guardiacaccia. 
«Voglio che scopriate se qualche esemplare possa essere scampato al genocidio. Non limitatevi a loro: cercate ogni creatura incantata che in quegli intrichi ha trovato riparo dalla follia dei miei antenati. Fate, salamandre, grifoni o linci volanti. Trovatele e occupatevene, in modo che capiscano che la Foresta di Khun è tornata un luogo sicuro».
Così aveva parlato il re. Il secondo atto del governo di Kershen fu invitare in patria gli eruditi incontrati nei suoi viaggi, perché studiassero i testi che languivano nelle biblioteche e, a loro volta, facessero ricerca su tutte le storie che dovevano esistere e che forse qualcuno ancora ricordava. 
Altro gesto di Kershen fu quello di liberarsi di tutti i consiglieri legati al precedente sovrano, tenendo solamente due suoi fidati collaboratori provenienti dal nord e abili tanto con la spada quanto con le parole.
La popolazione accolse con gioia quelle decisioni, sicura che ne avrebbero fatte seguito altre di altrettanta saggezza.
Grande fu la gioia del re e del popolo quando quegli uomini che avevano setacciato ogni anfratto dell’oscura foresta di Khun fecero ritorno conducendo ben quattro esemplari di unicorno.
Apriva la parata un enorme maschio nero, con una lunga criniera bianca e l’aspetto fiero. Gli occhi erano trasparenti come la luce e li teneva socchiusi mentre traversava la via principale della capitale, circondato da una folla urlante. Al centro della fronte spiccava un lungo corno ritorno, di un accecante color perlaceo mentre i suoi zoccoli erano color oro.
Lo seguiva una femmina, più piccola e dalla struttura delicata. Il mantello era di un delicato color bianco rosato come pure la criniera e la coda. I suoi occhi erano simili per colore al cielo medesimo e il suo corno, più corto di quello del maschio, era liscio e color pervinca. I suoi zoccoli argentati non producevano rumore mentre veniva condotta a lungo la via.
Due puledrini, dagli occhi cerulei e le criniere lilla ma dai manti neri. Il corno di uno era nero e a spirale mentre quello dell’altro era bianco e liscio, gli zoccoli erano entrambi argentati.
I quattro animali furono portati in una zona riparata del parco reale, dove furono visitati dai veterinari che provvidero a curare alcune piccole ferite che dovevano essersi procurati quando avevano visto gli uomini, che erano riusciti a catturarli. Anche se si erano fatti docilmente condurre dai loro rifugi alla capitale, i quattro unicorni non si rivelarono altrettanto docili una volta arrivati al parco del re. Furono lasciati liberi di correre per i giardini e la foresta protetta, lasciandosi avvicinare solo dagli uomini che li avevano trovati e verso cui sembravano provare una sorta di riconoscenza.
«Maestà dovete tenere conto - spiegò uno dei veterinari, durante una delle visite del monarca - che questi animali hanno ereditato dai loro antenati il terrore degli uomini, durante i secoli in cui la loro stirpe è stata cacciata indiscriminatamente, costringendoli a rintanarsi nei luoghi oscuri e selvaggi dove sono stati trovati». 
Gli unicorni furono ospitati nel parco reale per quasi due lunghi anni e non appena i due puledri furono cresciuti furono riportati nella foresta di Khun, perché la ripopolassero. Nel giro di nemmeno dieci anni la popolazione degli unicorni si era moltiplicata, in quanto una volta che avevano fatto ritorno, tra gli alberi e le radure erano emersi molti altri esemplari, a dimostrazione che nonostante tutti i tentativi di sterminarli, gli animali si erano rivelati più furbi ed intelligenti degli umani. 
Anche il recupero delle antiche tradizioni proseguì relativamente veloce, infatti più ci si allontanava dalla capitale e quindi dal diretto controllo del monarca più le nozioni delle antiche storie erano più facili da recuperare e nel breve volgere di un quinquennio gli eruditi poterono presentare a re Kershen i primi volumi contenenti leggende e miti legati alla Foresta di Khun.
Ogni settimana il re ascoltava le richieste dei cittadini e, come con gli studiosi, aveva mandato suoi uomini fidati per sapere quale era la situazione in cui si trovavano i suoi sudditi. La risposta non gli era piaciuta, per nulla. Per settimane era rimasto chiuso nel suo studio cercando una soluzione.
Kershen non era uomo da lasciarsi intimorire dalle sfide e aveva preparato una serie di ordini che avrebbero dovuto rimettere in sesto l’intero regno.
Fece riaprire le scuole e le accademie e a chi gli domandava perché, rispondeva che «Un popolo che non apprende a leggere e scrivere, non è un popolo libero. Non è diffondendo l’ignoranza che si può sperare di essere migliori ma studiando e approfondendo. La mente si apre ad un mondo nuovo. A questo servono anche le leggende e i miti del passato. Ogni uomo dotato di intelligenza deve avere la possibilità di imparare e di avere una cultura. Non basta sapere un mestiere per essere un uomo».
Quei discorsi poco piacevano ai nobili, che vivevano ancorati alle tradizioni tramandate dai tempi di Horgas, facendosi mantenere dal popolo. Fu intorno al quindicesimo anno di regno di Kershen che i nobili ordirono una congiura, ma furono sbattuti fuori dai confini del regno dai nuovi ranghi dell'esercito, che era ritornato se non proprio agli antichi splendori almeno ad una forma decente, fedele al nuovo sovrano.
Altri dissidenti se ne andarono spontaneamente, dopo aver tentato di assassinare non più il re ma il principe.
Kershen, che si era sempre reputato un uomo fortunato, aveva infatti garantito la successione dinastica generando un figlio maschio, che era stato chiamato August. Per volere di Kershen stesso il bambino era stato allevato in modo sobrio, favorendo le arti alla pratica della guerra e impedendo che il piccolo si perdesse nel vizio e nell’ozio. Lui stesso, per quanto sempre oberato di lavoro, trascorreva con il figlio ogni momento libero dagli impegni di stato. Nonostante gli insegnamenti paterni August rimase sempre parecchi passi indietro ed ancorato ad alcune delle tradizioni severe introdotte dai suoi avi.
Tra un riforma delle accademie e il tentativo di ridurre le tasse, Kershen era anche riuscito a ripristinare l’esercito, a rinforzare i confini e a stringere qualche debole trattato di pace.
Sentiva la fatica del regnare sulle sue spalle e il corpo divorato dalla malattia e il momento di passare il comando ad August si faceva sempre più vicino. Tanto Kershen che la corte si rendeva conto che era necessario trovare una sposa per il giovane August. Mathilda, la madre del principe, si era rivelata un prezioso sostegno per il sovrano ed egli voleva per il figlio una moglie che gli fosse di aiuto e non di intralcio. 
Dopo parecchi tentativi la scelta era caduta sulla figlia maggiore di un potente principe di un regno rinomato per la rigidità delle sue leggi e per la diffusa leggenda che alcune eredi venissero allevate secondo le regole della cavalleria.
La regina espresse in più di un’occasione la sua perplessità ma il marito fu irremovibile e alla fine lei cedette.
Missive furono inviate chiedendo, senza troppi giri di parole, la mano della principessa Lavia. Da parte del regnante giunse come risposta un ritratto della fanciulla e la richiesta di uno del principe.
Per qualche mese tra le due capitali vi fu un intenso scambio di messaggeri e alla fine si giunse ad un accordo. Kershen era compiaciuto e Mathilda cominciò a sospettare che trovasse divertente quella corrispondenza con il padre della principessa Lavia. Nuovamente cercò di parlargli ma Kershen la zittì. «Cerchi sempre di togliermi il divertimento in ogni mio atto», poi indicò l’ultima lettera giunta dal vicino. «Ha accettato e ha detto che a breve arriverà un messaggero per preannunciare l’arrivo del corteo che accompagnerà la principessa Lavia al nostro palazzo. Mi aspetto quindi che tu organizzi un’accoglienza degna della futura regina. In gioco c’è molto più del futuro della nostra casata. Ora lasciami, ho una riunione per vedere se questo ennesimo patto di pace funziona oppure no». Kershen aveva sbuffato mentre qualche delegato si presentava alla sua porta chiedendo udienza.
Mathilda aveva annuito e si era congedata dal marito per andare a dare la buona novella al figlio. August era nel giardino a passeggiare, seguito a vista da due guardie del palazzo. Quando videro comparire la regina si misero sull’attenti ma quella li ignorò. Mathilda fece un cenno al figlio e insieme si allontanarono.